23.6.06

Lino Rizza “DIPINTORE”, di Ermete Giorgi

Non si tratta ormai più di un semplice paesaggista, o ritrattista, ma d’una specie d’istituzione artistico-culturale, passata ormai a far parte integrante del panorama camuno, giusto come le nostre simpatiche bovine di razza bruno-alpina. Lino Rizza è nato a Pian di Borno nel 1942 (in piena seconda guerra mondiale) e quindi ha subito notevoli spaventi e privazioni. Dopo gli studi dell’obbligo (che a quei tempi non erano affatto obbligatori) frequenta quello che allora si chiamava l’Istituto magistrale a Breno, ove si diploma (non è dato saper con quale voto in disegno). Insegna come maestro per qualche anno, poi nel 1968, quando più o meno tutti i giovani si dedicano alla rivoluzione ed alla contestazione, si consacra allo studio nell’Istituto d’Arte “G. Savoldo” di Brescia, frequentando l’ultimo anno. Risultato finale: abbandonerà completamente l’insegnamento elementare, per dedicarsi a tempo pieno alla pittura. Nel 1976 si stabilisce in una baita di montagna a Pescarzo di Capo di Ponte (“Pescàrs sùer Sem”), ove trascorre ben otto anni in una sorta di ascetico romitaggio, cibandosi soltanto (come il Battista) di locuste, castagne, miele selvatico e vestendo pelli della capra bionda dell’Adamello. Travolto come Jacopone da Todi da un frenetico a pazzo desiderio di penitenza, sposa Giovanna Mari, un monello di piazza Mercato a Breno, che gli farà oltre che da moglie anche da “promotor” pubblicitario e da simpaticissima rompiscatole, dedicandosi alla scultura e suscitando sacrosante, malcelate gelosie di mestiere. Ad un certo punto il definitivo ritorno a Pian Borno, come quelle anguille che percorrono migliaia di miglia per tornare ai luoghi d’origine a deporre le uova. L’amore per la pittura è una costante della sua vita: i famosi “primi passi” sulla via dell’arte li compie (secondo i biografi) nella bottega di un pittore bresciano a sette anni (età, secondo il Catechismo d’un tempo, nella quale il ragazzo maturava il cosiddetto “uso di ragione”). Non c’è praticamente tecnica pittorica con la quale non si sia misurato nell’ormai lungo periodo della sua attività: acquarello, olio, affresco, acrilico. Non ha ancora messo a punto le ultimissime tecniche informatiche di imbianchino virtuale da realizzarsi col “computer”: è però questione di tempo e presto forse inventerà una mostra da visitare “on line”. Psicanaliticamente, per riparare ad incomprensioni ed attriti maturati sui banchi della magistali tra lui ed Alessandro Manzoni, ha definitivamente deciso di dedicare le sue “cose” migliori al grande milanese: ecco perché ad ogni piè sospinto salta fuori un disegno, un acquarello, insomma un’opera dedicata ai “Promessi Sposi” in versione Valcamonica: Renzo da Paspardo, Lucia di Ono san Pietro; don Abbondio di Garda di Sonico, Padre Cristoforo della Beata, Agnese d’Artogne, Perpetua della Sacca, l’Innominato di Vissone e così via discorrendo. Un “gazzettante” (così eran definiti i giornalisti nel 1700) non meglio identificato ha scritto che Rizza è un camuno che ha il Manzoni nel cuore: non è vero perché ormai ce l’ha nel cervello, assendo a questo punto divenuto un’ossessione. Sembra accertato che la sera, quando Lino si corica accanto a Giovanna, ne approfitti subito per leggerle un capitolo intero del grande romanzo, anche per farla dormire e quindi godere nel corso dell’intera giornata d’almeno qualche attimo di silenzio. E dire che un tempo il nostro “dipintore” stava bene, restaurava o riaffrescava le “santèle” ove i camuni avevan fatto dipingere, per paura di contagio, san Rocco, il santo più gettonato lungo tutto il corso dell’Oglio per i suoi poteri taumaturgici contro la peste. Che quelle ingenue figurazione gli abbian passato il contagio e che – da buon monatto - essendo guarito, adesso mediti magari di passarci un nuova, più feroce epidemia manzoniana?

(un amico ERMETE GIORGI )

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