3.6.06

Commento, Prof.Gian Franco Bondioni

Tutte le volte che un artista rappresenta una persona o un luogo o una cosa, rappresenta sempre la realtà dell’uomo; quindi parla sempre dei sentimenti e delle idee che la persona o il luogo o la cosa suscitano. L’artista ricerca quindi il senso dell’uomo. Anche Lino Rizza compie questa ricerca: ma il suo mondo, il nostro mondo, questa Valle in cui lui come me, è nato e cresciuto, è stato massacrato: la cultura, la lingua, i mestieri e le tradizioni che hanno costituito l’ambiente di noi bambini non ci sono più. Lino allora si muove alla ricerca di un senso dell’umano là dove senso non c’è (più). La tentazione per un artista di fuggire nella ricerca astratta in cui gli oggetti non hanno una forma propria ma sono “come io li vedo” cioè sono pura linea o pura massa o puro colore o pura materia. Si tratta di una pratica, questa, che ha illustri precedenti e il pregio indiscutibile di dire che il nostro mondo è appunto, astratto; ma anche il limite di non uscire mai dall’ambito del soggettivo. Ma non è questa la linea che Rizza ha scelto; se il nostro mondo di oggi è brutto e senza anima il pittore ci fa la proposta di un altro mondo. Va ad attribuire all’antico, al muro a secco, all’arco del portone che rivelano una millenaria sapienza, al viso dell’uomo e alla fatica che lo ha segnato, al paesaggio umanizzato dei campi un valore di simbolo. La memoria dell'artista insomma si pone come momento di collegamento e di recupero della memoria collettiva: non si tratta di una ricerca di senso individualistica e soggettivistica (che porterebbe inevitabilmente ad un sogno falso e idillico) ma del tentativo invece da parte del pittore di dar voce ad un disagio generalizzato e ad una ricerca che vale per tutti. Almeno per tutti coloro che non sono ancora convinti che questo sia il migliore dei mondi possibili. Certo tale memoria è dolorosa, perché la storia della Valle, storia di esproprio e di distruzione, è dolorosa. Ma solo attraverso un processo che porti noi stessi a riappropriarci della nostra storia e della nostra cultura potremo ritrovare gli strumenti per rendere vivibile il nostro mondo. Non si tratta di impossibili restauri, di operazioni rétro che recuperano, ad esempio, il dialetto facendo finta che sia ancora vivo: è morto e quindi dobbiamo studiarlo perché ci dice tanto sul nostro passato, perché è uno dei segni della nostra storia. Lino, alla ricerca dei segni: attraverso il simbolo dell’antico passa la proposta di dare un senso ad un mondo da costruire a partire dal presente.

Prof.Gian Franco Bondioni

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